Queste pagine del blog sono dedicate alle ricette stravaganti, per forma o per contenuto.
☞ Zuppa di funghi alla Silvano
Da un manoscritto fortunosamente recuperato sul mercato antiquario, pubblico un componimento poetico scritto da un certo Valtherus, dedicato a un’antica zuppa di funghi toscana di un certo Silvanus.
☞ Zuppa di funghi alla Silvano
Da un manoscritto fortunosamente recuperato sul mercato antiquario, pubblico un componimento poetico scritto da un certo Valtherus, dedicato a un’antica zuppa di funghi toscana di un certo Silvanus.
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☞ Muse panciute nel Paese della Cuccagna
Seconda pagina stravagante del blog: sono i primi versi del Baldus di Teofilo Folengo (1491-1544), noto anche come Merlin Cocai, poeta italiano che non disdegnò l’uso del latino maccheronico. La stravaganza è questa: il Baldus si apre con un’allocuzione alle muse; non però alle muse del canto e della cetra, bensì alle muse del mangiare, del bere, della crapula, della gozzoviglia, dell’arte culinaria.
Cercando qua e là traduzioni italiane del proemio, ne ho
trovata una decisamente sui generis, se non altro per il fatto di essere composta in
perfette ottave ariostesche (con tetrastico finale rimato AABB). L’ha scritta
nel lontano 1993 (cf. «Semicerchio» 10, 1993, pp. 20-21) il filologo classico e
mio caro amico Walter Lapini, che mi ha cortesemente autorizzato a riprodurla.
Phantasia mihi plus quam
phantastica venit
historiam Baldi grassis
cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam,
nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque
metu sibi cagat adossum.
Sed prius altorium vestrum
chiamare bisognat,
o macaronaeam Musae quae
funditis artem.
An poterit passare maris mea
gundola scoios,
quam recomandatam non vester
aiuttus habebit?
Non mihi Melpomene, mihi non
menchiona Thalia,
non Phoebus grattans
chitarrinum carmina dictent;
panzae namque meae quando
ventralia penso,
non facit ad nostram Parnassi
chiacchiara pivam.
Pancificae tantum Musae,
doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax,
Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant
macarone poëtam,
dentque polentarum vel
quinque vel octo cadinos.
Hae sunt divae illae grassae,
nymphaeque colantes,
albergum quarum, regio,
propriusque terenus
clauditur in quodam mundi
cantone remosso,
quem spagnolorum nondum
garavella catavit.
Grandis ibi ad scarpas lunae
montagna levatur,
quam smisurato si quis
paragonat Olympo
collinam potius quam montem
dicat Olympum.
Non ibi caucaseae cornae, non
schena Marocchi,
non solpharinos spudans mons
Aetna brusores,
Bergama non petras cavat hinc
montagna rodondas,
quas pirlare vides blavam
masinante molino:
at nos de tenero, de duro,
deque mezano
formaio factas illinc
passavimus Alpes.
Credite, quod giuro, neque
solam dire bosiam
possem, per quantos abscondit
terra tesoros:
illic ad bassum currunt cava
flumina brodae,
quae lagum suppae generant,
pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille
videntur
ire redire rates, barchae,
grippique ladini,
in quibus exercent lazzos et
retia Musae,
retia salsizzis, vitulique
cusita busecchis,
piscantes gnoccos, fritolas,
gialdasque tomaclas.
Res tamen obscura est, quando
lagus ille travaiat,
turbatisque undis coeli
solaria bagnat.
Non tantum menas, lacus o de
Garda, bagordum,
quando cridant venti circum
casamenta Catulli.
Sunt ibi costerae freschi,
tenerique botiri
in quibus ad nubes fumant
caldaria centum,
plena casoncellis,
macaronibus atque foiadis.
Ipsae habitant Nymphae super
alti montis aguzzum,
formaiumque tridant
gratarolibus usque foratis.
Sollicitant altrae teneros
componere gnoccos,
qui per formaium rigolant
infrotta tridatum,
seque revoltantes de zuffo
montis abassum
deventant veluti grosso
ventramine buttae.
O quantum largas opus est
slargare ganassas,
quando velis tanto ventronem
pascere gnocco!
Squarzantes aliae pastam,
cinquanta lavezzos
pampardis videas, grassisque
implere lasagnis.
Atque altrae, nimio dum
brontolat igne padella,
stizzones dabanda tirant,
sofiantque dedentrum,
namque fogo multo saltat
brodus extra pignattam.
Tandem quaeque suam tendunt
compire menestram,
unde videre datur fumantes
mille caminos,
milleque barbottant caldaria
picca cadenis.
Hic macaronescam pescavi
primior artem,
hic me pancificum fecit
Mafelina poëtam.
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Oggi m’ha preso
l’uzzolo uzzoloso
di raccontar di
Baldo un po’ all’ingrosso.
Solo a sentirne
il nome sfracelloso
la terra trema e
il ciel se la fa addosso.
Ma prima, o dee
del latinorum,
l’uso
di mentovarvi
trascurar non posso,
ché non andrebbe
lungi il mio vascello
se non avesse in
voi saldo puntello.
Non educhi
Melpomene il mio verso
né l’educhi Talia
minchiona o Apollo
che in sciocche
musichette è sempre immerso.
La ciccia del mio
stomaco satollo
alle parnassie
lagne mi fa avverso.
Solo a panciute
dive io piego il collo:
alle sapienti
Gosa e Mafelina,
Pedrala,
Striazza, Togna e poi Comina.
Imbocchino di
gnocchi il loro vate,
e portino polenta
in orci e stagne.
Queste mie ninfe
grasse e sbrodolate
dimorano su
ripide montagne
– da ispana
caravella mai toccate –
che stanno della
luna alle calcagne.
Se lo misuri
insieme a questa vetta,
l’Olimpo ti parrà
una collinetta.
Né il Caucaso né
i dossi marocchini
né l’Etna c’è,
che sputa zolfo e lava,
né i gioghi a
quel di Bergamo vicini
onde il ruotante
lapide si scava
che serve a
pestar biade nei molini;
ma un’Alpe
attraversammo che s’alzava
ritta di cacio
vecchio e di novello,
e d’un che era a
metà fra questo e quello.
Per i tesori di
sotterra giuro
che non vi dico
falso testimonio.
Nei fiumi scorre
zuppa a tutto sturo;
c’è un lago di
minestra, e il pinzimonio
non è meno
abbondante di sicuro.
Velieri
biscottati d’ogni conio
e barche fatte di
tiramisù
traversano quel
sugo in mille e più.
Da queste navi,
con cordame e reti
tessute di
budelli e di prosciutto
pescan le muse
gnocchi e strozzapreti.
ma quando l’ira
del lacustre flutto
bagna del cielo
il tetto e le pareti,
oh quello è un
giorno periglioso e brutto!
Non così forte il
procelloso Garda
strapazza di
Catullo la mansarda.
Le ripe son di
burro, e dai paioli
si leva fino al
cielo una fragranza
di penne, di
tortelli e di ravioli.
Le muse, che
hanno in questo monte stanza,
grattugiano di
cacio immense moli;
c’è chi guarnisce
delicati gnocchi
che ruzzolano in
basso a turme e crocchi.
Lo gnocco, nel
cader da cima a fondo,
girandosi nel
cacio si appiattella,
e come grassa
botte si fa tondo.
Se sai spalancar
tutta la mascella,
tal cibo il
ventre tuo farò giocondo.
La pasta vien
tagliata a pappardella
o a florida
lasagna, e questa massa
raggiunge il peso
di un quintale e passa.
Se brontola sul
fuoco il recipiente
viene una musa e
ne dirada i tizzi
soffiando. Se la
fiamma è troppo ardente,
non te stupì che
er brodo fuori schizzi.
Còce ogni musa un
piatto, e sempre ‘ar dente’.
Guarda come dai
forni il fumo sprizzi
e le marmitte di
pietanza piene
borbòttino
sospese alle catene.
Per primo l’arte
del maccheronare
a questi marmi un
dì venni a pescare:
me grasso vate
fece Mafelina
in lingua
lasagnidica latina.
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Teofilo Folengo Trad. di Walter Lapini
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ma chi lo ha scritto è un genio!!
RispondiEliminaConcordo. E in perfetto metro oraziano. Chi se ne intende avrà riconosciuto nella strofa tre saffici minori seguiti da un adonio.
RispondiEliminasi ma Saffo non era una poetessa greca? e allora perchè saffici se e' latino? cmq versi bellissimi. bravo Valterus se esisti
RispondiEliminaD. O.
Perché saffici se è latino? Per lo stesso motivo per cui si chiama cheesecake una torta anche se l'ha fatta un cuoco italiano.
RispondiEliminaOttimi all'hotel 3 stelle alpe di siusi https://www.alpedisiusi.com/plaza-easy-living
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